Alcune osservazioni sui primi archi in legno per uso sportivo e sulla loro costruzione.
Il tiro con l’arco nella sua dimensione sportiva e ludica nacque, potremmo presumere, quando il primo uomo scoccò una freccia per il puro piacere di farlo, senza quindi un preciso “scopo” utilitaristico, di caccia o di guerra che fosse. Vi sono accenni del “tiro al bersaglio” con l’arco nella stessa Bibbia, sarebbe quindi riduttivo affermare che il nostro sport nasce nell’Inghilterra vittoriana per poi trapiantarsi ed espandersi dagli Stati Uniti al resto del mondo. Tuttavia, da un punto di vista meramente federativo e formale, le cose sono andate proprio così, se non dal punto di vista strettamente olimpico della Fita, almeno sul piano del tiro di campagna di ispirazione venatoria, che ebbe nei fratelli Thompson prima e in Fred Bear e Hill dopo, i principali promotori.
Non esistono testimonianze scritte
Chi per primo in America entrò in possesso di un arco “sportivo” in legno di tasso, non ci è dato saperlo. Alcuni dei primi membri della compagnia United Bowmen di Filadelfia andarono a visitare l’Inghilterra ed è probabile che alcuni di loro siano tornati a casa con un arco inglese tra le mani, anche se non esistono testimonianze scritte a tale proposito negli annali del club. Tuttavia, per quanto strano possa sembrare, gli archi in tasso erano diventati una vera rarità persino in Inghilterra durante tutto il secondo quarto dell’ottocento: l’improvvisa esplosione di popolarità che lo sport conobbe nel 1825 deve aver provocato un vero saccheggio delle scorte del prezioso e raro legno, tale da richiedere il largo impiego di legni sostitutivi fino ai giorni del leggendario campione di tiro alla targa Horace Ford, autore tra l’altro del primo trattato sul tiro con l’arco moderno, intitolato “Archery, Its Theory and Practice” (1856). Correva l’anno 1829 quando il primo arco inglese “cadde” in mano agli United Bowmen di Filadelfia: si trattava di un longbow in lemonwood rinforzato sul dorso, opera del blasonato arcaio Waring. Nessun arciere di quella veneranda compagnia d’oltreoceano ebbe mai un arco in tasso fino a poco tempo prima della Guerra Civile tra Nord e Sud. Un certo Maxon, che scriveva sulla rivista arcieristica “Badminton” nel 1894, fu il primo dell’ambiente a citare il Taxus brevifolia (tasso americano) commentando la situazione costruttiva del tempo con queste parole: “La mancanza di esperti costruttori di archi ha fatto sì che fosse sinora meno rischioso procurarsi un arco inglese in tasso o in lancewood (Oxandra lanceolata) di buona qualità piuttosto che orientarsi su un attrezzo in legno nostrano e di costruzione americana. Il tasso della California consente di ottenere un’eccellente stecca da arco, ma esso finora è stato assai poco usato in quanto gli arcieri, che preferiscono il legno di tasso, generalmente prediligono le qualità di più densa crescita provenienti dall’Europa. Alcuni archi di eccellente fattura vennero costruiti con tasso americano a San Francisco e New York all’incirca tra il 1880 e il 1882 e, quando vengono rinforzati sul dorso con uno strato di Hickory, questi attrezzi non hanno nulla da invidiare a quelli in tasso spagnolo di assai maggior pregio e costo”.
Il più costoso: un longbow in lamine di bambù
Tuttavia, nei cataloghi dei dettaglianti di materiale arcieristico di New York e Brooklyn di quegli anni, non troviamo nemmeno l’ombra di un accenno al tasso. In quel periodo l’arco più costoso ed apprezzato era un longbow in lamine di bambù incollate e congiunte al centro, che veniva venduto a “ben” venti dollari, mentre un “arco da uomo lungo sei piedi di prima qualità, in lancewood massello con puntali in corno o alluminio, completo di impugnatura rivestita e corda intrecciata” veniva quattro dollari e cinquanta. Altri archi da club, di simili caratteristiche ma di evidente superiorità qualitativa, venivano venduti a sette dollari, mentre un altro tipo di arco in lancewood rinforzato con hickory sul dorso e legature in seta per rinforzo ed estetica, veniva nove dollari. Il secondo in classifica, dopo il pregiato arco in bambù, era un longbow di snakewood massello (Piratinea guianasis), un legno originario della Guiana, che veniva venduto a quindici dollari. Il listino di un altro grosso commerciante del settore, Horsman’s, era più o meno uguale, ma la sua gamma di archi rinforzati sul dorso è più interessante per via dell’ampia varietà dei legni menzionati. Gli archi erano tutti rinforzati in lancewood, ma i bellies (le facce interne) includevano: hickory, amaranto, beefwood (Minusops globosa), rosewood e altri legni esotici come il pheasant. I prezzi andavano dai cinque ai nove dollari. Questo è anche il solo esempio a me noto nel quale la pratica usuale venne invertita e l’hickory usato sulla parte interna soggetta a compressione invece che su quella esterna per resistere alla trazione.
Robert P. Elmer negli anni ’30-‘40
Robert P. Elmer, campione indiscusso di tiro alla targa tra gli anni ’30 e ’40, ci riferisce di aver visto un sacco di quei vecchi archi risalenti agli inizi del 1880 e di averne anche usati alcuni. “Si doveva essere assai prudenti – spiega Elmer – poiché la colla di quei tempi cedeva all’improvviso a causa del clima eccessivamente secco. Erano attrezzi mediocri rispetto agli standard “moderni” (scriveva Elmer nel 1946) – ma erano magnificamente rifiniti ed eleganti esteticamente, poiché quei legni duri consentivano la costruzione di archi veramente sottili e snelli. I Belgi ancora usano archi di questo tipo”. Nessun legno può essere usato se non è passato attraverso il processo di stagionatura. La quantità di acqua normalmente presente nel legno fresco è enorme, ma la proporzione è maggiore in alcuni tipi di legno piuttosto che in altri. Anche un legno durissimo come il teak, che cresce per natura a fibra fitta e solo su pendii di montagne asciutte e con perfetto drenaggio, è troppo pesante per galleggiare quando è appena tagliato, il che implica un peso specifico superiore alle 63 libbre (28,5 kg) per piede cubico. Quando viene seccato abbastanza per essere messo in commercio pesa intorno ai 18 kg al piede; ciò sta ad indicare la perdita di ben un terzo della massa iniziale. Quindi la riduzione del contenuto acquoso del legno è “volgarmente” nota come stagionatura, ma questo importante processo non può essere spiegato in termini così elementari e semplicistici. È abbastanza vero che, durante la stagionatura, l’acqua in eccesso contenuta nei vasi fibrosi del legno evapora, tuttavia è anche vero che durante questo importante e lento fenomeno avvengono numerosi e complessi mutamenti sia chimici che istologici, che risultano evidenti solamente dagli effetti che essi producono ma che possono essere seguiti in dettaglio soltanto attraverso la perseverante ricerca di personale scientifico qualificato.
Quando il legno esprime la massima forza
La Treccani o la Britannica dicono che: “La rigidità del legno aumenta con l’evaporazione dell’acqua solo fino a raggiungere il 3 o 4 percento di umidità residua nel legno stesso e in questo stato il legno può esprimere la massima forza ma non al di sotto di questa percentuale. Tuttavia, nella pratica comune, legno così secco non si trova mai: il legname, anche in condizioni climatiche calde e ventilate, continua a contenere almeno un 10 percento di umidità residua”. Un tale stato di “disidratazione” può essere velocemente ottenuto procedendo all’evaporazione del legno verde in appositi forni, ma l’effetto, come andremo ad analizzare, diventa disastrosamente debilitante per la struttura lignea. Purtroppo la logica moderna di lavoro è più vicina all’avidità che non alla saggezza: deve tradurre in termini monetari ogni attimo di tempo che passa, così che tutto il legname da opera reperibile oggigiorno è già stato inevitabilmente trattato in quel modo indegno, salvo poche, rarissime eccezioni relative a poetiche e pittoresche segherie di montagna, ormai in via di estinzione. Chiunque abbia eseguito anche soltanto qualche casereccio lavoro di carpenteria può aver notato la differenza di consistenza tra una tavola in legno moderna e una dello stesso legno stagionata in modo naturale qualche generazione addietro. Questa asserzione può essere scioccante per coloro che oggigiorno hanno intenzione di costruire “romantici” archi in legno, poiché implica il fatto che ogni nostalgico arcaio desideroso di far rivivere i magici attrezzi del passato dovrebbe anche tagliare e stagionare per conto proprio il prezioso materiale, con conseguente maggior “perdita” di tempo, mettendosi quindi in netto contrasto con la logica moderna.
Il processo di essiccazione
La struttura cellulare del legno è analoga per molti aspetti a quella della carne: proprio come della carne fresca e succulenta può essere modificata dal processo di essiccazione fino a diventare dura, rigida e resistente, quindi il legno diviene anch’esso duro e forte a seguito di un simile processo naturale.
Tale processo, come abbiamo già accennato, non è il risultato di una semplice disidratazione. Le cellulose, le resine, i protéidi, gli albuminoidi, gli zuccheri, gli amidi, gli oli, i protoplasmi e le altre sostanze presenti nel legno sviluppano complicati e poco noti cambiamenti sia chimici che fisici al loro interno ed è qui che la moderna stagionatura artificiale fallisce il suo obiettivo: potrà anche drasticamente ridurre il contenuto acquoso in poco tempo, ma non potrà mai consentire alle altre complesse e delicate alterazioni di accadere. Il tempo prescritto per legge dal governo britannico per la stagionatura del legname in tempo di pace variava, alcuni decenni or sono, dai tre mesi per le essenze tenere sbozzate in travi quadrate dai quattro ai sei pollici di lato, fino ai ventisei mesi per i legni duri in travi di sezione dai due piedi in su.
Mentre questi tempi potevano essere sufficienti per le necessità degli architetti, sono tuttavia inadeguati per quelle di un buon arcaio. Il legno di tasso, in Inghilterra, veniva stagionato nelle botteghe dei costruttori d’archi per circa cinque anni; a noi tutto ciò può apparire eccessivamente “conservatore”, soprattutto in considerazione del fatto che il costruttore inglese parte da una stecca di legno che non è molto dissimile da un arco sovradimensionato, eliminando poi le eccedenze un po’ per volta ogni anno. Tuttavia, nel nostro clima continentale più asciutto, tre anni di stagionatura sono più che sufficienti.
Naturalmente sono stati costruiti molti archi con legni stagionati al di sotto dei tre anni e hanno funzionato ugualmente, ma sarebbero stati migliori e più duraturi se il loro legno fosse stato stagionato più a lungo.
Alburno e durame
La fondamentale differenza tra l’alburno e il durame del legno è la stessa differenza che esiste tra la vita e la morte, infatti il durame (interno del tronco) non è nient’altro che alburno morto. Le cellule dell’alburno sono ancora piene di protoplasma vivente, mentre nelle cellule del durame il protoplasma è morto ed è stato rimpiazzato da tannino e resine. L’alburno contiene anche le fibre cave e i condotti attraverso i quali passa la linfa. Sono proprio gli zuccheri e gli amidi presenti in questa parte esterna del tronco a richiamare gli insetti e i batteri in cerca di cibo, ecco perché il durame del legno è più durevole ed immune da tali rischi se esposto agli agenti esterni: pochi esseri viventi vogliono mangiarselo. Quanto riportato dal dr. P. Elmer nel 1946 nel suo magistrale libro “Target Archery” contrasta, quindi, per quanto riguarda l’analisi sull’idoneità dei legnami, con quanto pubblicato più di recente da Ron Hardcastle nella peraltro pregevolissima opera “Traditional Bowyer Bible”, volume 1 (1992).
Nella parte dedicata al taglio e alla stagionatura del legno per archi, Ron affronta la spinosa questione della stagionatura industriale a forno ed argomenta che, dopo tutto, anche il legname trattato in quel modo, dopo essere stato “lasciato in pace” per qualche mese, può riacquistare le sue caratteristiche a causa del naturale processo di reidratazione dovuto allo scambio igrometrico con l’umidità ambientale ed essere quindi usato dall’arcaio con la massima fiducia.
Quelli stagionati artificialmente…
Ron quindi ne fa unicamente un problema di eccessiva essiccazione delle fibre, dimostrando a mio avviso soverchia ingenuità e superficialità: come potrebbe infatti del legname chimicamente debilitato riacquistare una resilienza e robustezza che non gli abbiamo mai consentito di acquisire sin dall’inizio? Quei delicati processi fisici e chimici che si verificano soltanto in condizioni naturali ad opera del tempo, non sono potuti avvenire nel legno “seccato” in forno, non importa quanto lo lasciamo riposare o reidratare all’esterno. Certo, si possono costruire archi anche con legno industriale stagionato artificialmente, ma non saranno nemmeno che un pallido simulacro dei loro predecessori in legno fatto stagionare in cataste o nelle botteghe.