CONCORDIA SAGITTARIA, ALLE PORTE DI AQUILEIA
UNA DI INGRESSO PER L’ORIENTE NELLE PENISOLA ITALIANA
Mi ero sempre chiesto come, l’arciere raffigurato nel Museo della Cattedrale di Ferrara, brandisse un arco ricurvo statico a leve rigide, di chiara foggia orientale, già nel 1200. Infatti a quel tempo Marco Polo non aveva ancora aperto la “Via della Seta”, che tale e tanta cultura materiale avrebbe in seguito portato in Europa.
Pensavo, sbagliando, che potesse essere una testimonianza di incontro-scontro con l’odiato e temuto nemico “saraceno” in un’epopea di sanguinose crociate, conclusasi con un totale disastro per l’occidente. No, solo adesso, dopo quasi vent’anni, mi sono accorto di quanto fossi fuori strada. Archi di quel tipo a leve rigide erano in uso presso gli Unni nel IV secolo e presso i Magiari nel IX secolo. Quel tipo di geometria ridotta e fortemente stressata presuppone una struttura laminare composita altamente sofisticata, già in uso presso Assiri ed Egizi ed in seguito presso Parti e Sciti, stanziati presso il Mar Nero e l’Elbruz (le legioni di Crasso lo impararono a loro spese a Carre nel 53 a.C.).
L’arco composto centroasiatico suscita ancora oggi negli specialisti un misto di stupore ed ammirazione, infatti è sorprendente constatare come, la scarsità di foreste di conifere e caducifoglie, possa stimolare l’ingegno umano fino a creare uno degli strumenti più perfetti e sofisticati del mondo antico. Questa arma portentosa aveva una gittata quasi doppia rispetto al semplice arco in legno europeo, che pure ha avuto nell’arco lungo inglese un campione ancora indimenticato.
La chiave di lettura per la presenza di quest’arco a Ferrara ai tempi di Nicolaus e Wiligelmo, va invece cercata proprio a pochi passi dalle rovine sontuose di Aquileia, pochi chilometri a sud di Oderzo e Portogruaro vi è un paese denominato, alla metà del secolo scorso, “Concordia Sagittaria”. La cittadina sorge sulle fondazioni di quella che era in epoca romana la colonia “dedotta” cioè fondata alla metà del I secolo a.C. e denominata “Iulia Concordia”, si crede che tale nome stesse a sancire un accordo di pace stipulato nel 42 a.C. dopo la battaglia di Filippi tra i triumviri Ottaviano, Antonio e Lepido da una parte, e i “repubblicani” Bruto e Cassio dall’altra. Il nome della colonia potrebbe così alludere alla pacificazione ottenuta dopo le sanguinose guerre civili successive all’uccisione di Cesare nel 44 a.C. Le abitazioni, in tutto simili a quelle delle terre abitate dai Veneti, ed ancora oggi ravvisabili nei tipici “casoni” presso la laguna di Caorle, erano a pianta rettangolare, con focolare, e coperte da un tetto a doppio spiovente in canne palustri.
Questo originario centro protostorico conobbe quel fenomeno lento, progressivo e inesorabile che fu la romanizzazione. Il trattato di alleanza tra Veneti e Romani del 225 a.C. e la successiva fondazione di Aquileia nel 181 a.C., furono eventi decisivi nel quadro della strategia di espansione di Roma nella parte orientale della Gallia Cisalpina, che aveva appunto trovato nelle popolazioni venete dei validi alleati, piuttosto che nemici da sottomettere.
Il passo successivo fu la creazione, intorno alla metà del II sec. a.C., di un’efficace rete stradale che attraversava tutto il territorio. Il sito della futura “Iulia Concordia” venne così a trovarsi in un punto strategico di questo sistema di comunicazioni, cioè proprio dove si intersecavano le due strade principali per Aquileia: la via Annia, realizzata nel 131 a.C. che provenendo da Adria passava per Patavium (Padova), e bordeggiava le lagune e la via Postumia, del 148 a.C., che collegava Tirreno ed Adriatico, da Genova fino ad Aquileia, attraversando l’intera pianura padana.
L’appellativo “Sagittaria” dato a Iulia Concordia alla fine dell’ottocento, si riferisce all’antica fabbrica di frecce (sagittae) che, come riportato nella “Notitia Dignitatum”, un documento ufficiale del IV secolo d.C. che riporta le cariche militari con cui si amministrava il tardo impero, trovò qui sede appunto all’inizio del IV secolo. Il nome attuale è dunque l’esito della riscoperta del passato , che conobbe un’improvvisa fioritura negli anni 70 dell’800, grazie a campagne di scavi. Prima di allora la memoria storica della città romana, solo di sfuggita citata nelle fonti antiche – soprattutto Strabone e Plinio il Vecchio – trovava riscontro da una parte nelle collezioni di oggetti antichi di alcune famiglie del luogo, e dall’altra nel lavoro non ufficiale dei “cavatori di pietre” dilettanti.
Sotto Diocleziano, tra il 284 e il 305 d.C. con l’impero ancora non diviso, venne resa operativa la più vasta riforma sia militare che di tutto l’apparato statale civile mai messa in atto, per fare fronte alle già incipienti debolezze e divisioni dimostrate con l’invasione prima dei Qadi e dei Marcomanni, che nel 168 d.C. dalle Alpi Giulie invasero la pianura Veneta, Aquileia ed Oderzo (fermati con difficoltà da Marco Aurelio nel 169), e poi degli Alamanni, che dagli stessi valichi invasero l’Italia nel 271 d.C. (fermati con ancor più grande difficoltà da Aureliano).
Non stupisce se, in questo minaccioso scenario, la mastodontica riforma di Diocleziano vedrà in questi pendii la nascita delle “Claustra Alpium Iuliarum” ossia di una massiccia linea difensiva con forti e truppe mobili nelle retrovie, per bloccare l’accesso alla penisola. La riforma di Diocleziano da anche origine alla totale riorganizzazione della produzione di armi in forma quasi moderna in quanto “smilitarizzata” ossia affidata a maestranze civili, anche se organizzate in forma militare, ma distribuite strategicamente sul territorio, diversificandone e frammentandone la produzione, in modo da impedire al nemico, in caso di caduta o tradimenti interni, di potere disporre di un completo arsenale pronto all’uso.
Aquileia si ergeva a primo baluardo di contenimento in caso di collasso del fronte in prima linea, mentre a Iulia Concordia furono stanziate le truppe mobili pronte ad intervenire in caso di ulteriore cedimento delle difese. A Iulia Concordia ed a Macon, in Francia, venivano costruite le frecce, gli operai erano militarmente organizzati, il mestiere era ereditario ed essi venivano marchiati sulle braccia per identificazione (il badge dell’azienda), erano tuttavia ben pagati e spesso potevano godere di privilegi e titoli onorifici.
Nell’economia strategica di Diocleziano gli scudi venivano prodotti sulla via Postumia vicino a Verona, gli archi a Ticinum (Pavia) e, secondo altre fonti, a Brescia (Brixia). La notitia Dignitatum non menziona alcuna “fabbricae arcuariae” o “sagittariae” nella parte orientale dell’impero, nonostante il rapporto tra le unità di arcieri stanziate in oriente fosse quasi doppio rispetto a quelle destinate all’occidente (44 contro sole 24). Ciò costituisce solo apparentemente un paradosso in quanto proprio in queste regioni l’uso dell’arco composito era maggiormente diffuso, ciò lascia supporre che la fabbricazione in serie fosse inutile in quanto gli artigiani locali erano in grado di soddisfare la domanda relativa alle truppe. Al contrario in occidente era lo stato a doversi far carico in prima persona del rifornimento delle truppe con una produzione di massa.
(G. Amatuccio, Gli Arcieri e la guerra nel Medioevo, Bisanzio, Islam, Europa; Greentime Ediz.)
Da allora Iulia Concordia divenne una città militare, sede di almeno 20 reparti fissi. Le sepolture rinvenute nella zona periferica dell’antico abitato di Iulia Concordia “Sagittaria”, testimoniano dalle lapidi i nomi dei militari che li vivevano, assieme a quelli dei lavoratori della fabbrica di frecce.
Ma, e qui si chiude il cerchio apertosi con l’interrogativo iniziale sulla provenienza in Italia del poi diffusissimo arco ricurvo composito; nella stessa zona cimiteriale sono state pure rinvenute le sepolture di “coloro che giunsero al seguito delle truppe”, nel nostro caso essi altri non erano che mercanti giunti da oriente, riconoscibili in quanto le loro iscrizioni sui sarcofagi non sono in latino bensì in greco.
Si è soliti dire, da due decenni a questa parte, che il tipo di arco maggiormente diffuso in Italia nel medioevo era il “ricurvo italico”, diventato quasi un “must” tra gli arcieri storici o tradizionalisti per asserire una sorta di rivalsa nazionale sul troppo celebrato, straniero ed anglosassone “longbow”.
E in effetti, studiando le iconografie rinascimentali dei più celebri pittori che si sono espressi nella rappresentazione del San Sebastiano (Antonio e Piero Pollaiolo, Andrea Mantegna, Vittore Carpaccio, Francesco del Cossa, Il Perugino, ecc.), possiamo constatare che è il ricurvo, nelle due varianti: statico e a tutta flettenza, a farla da padrone nel nostro paese, con la sola possibile eccezione dei dipinti piemontesi che, nel martirio del famoso santo, mostrano molti archi diritti laddove i santi martiri ad opera di empie frecce rappresentati nei paesi fiamminghi, raffigurano immancabilmente arcieri muniti di arco lungo inglese.
Azzardando una possibile chiave di lettura geografica per la maggiore diffusione dell’arco ricurvo al disotto del Po, è possibile ipotizzare come determinante per la sua diffusione nella penisola il ruolo di questi mercanti giunti da oriente, le cui sepolture del IV secolo possiamo ancora vedere a Concordia Sagittaria, nelle Venezie. Così potremmo concludere che, come l’arco nazionale inglese è in realtà scandinavo, così l’arco nazionale italico proviene in realtà del continente asiatico.
Morale: si quietino gli animi e cessino i campanilismi.
Fonti:
– The great Warbow, M.Strickland R. Hardy, S.P.L. 2005
– G. Amatuccio, Gli Arcieri e la guerra nel Medioevo, Bisanzio, Islam, Europa; Greentime Ediz. 2010 – Archeologia Viva, maggio-giugno 2007, “Concordia Sagittaria, una colonia romana a Nordest”, A. Vigoni E. Paternò.