Durante la seconda guerra mondiale la Danimarca fu occupata dai tedeschi e la raccolta della torba divenne un’attività assai diffusa in tutto il territorio per sopperire alla mancanza di carburanti provenienti dai paesi produttori. Questi scavi forzati portarono alla luce numerosi reperti provenienti da diverse fasi del periodo Mesolitico danese (8.500-3.800 a.C.). A quell’epoca le torbiere erano laghi poco profondi, fiumi e vasti territori paludosi e in quei paesaggi i primi abitanti della zona stabilivano i loro accampamenti estivi. Si trattava di popolazioni di cacciatori-raccoglitori appartenenti ad un ceppo culturale che viveva in tribù sparse in tutto l’enorme territorio pianeggiante del nord ovest europeo.
Nell’isola di Zelanda
Col passare dei secoli queste aree umide vennero mutate dal ciclo ambientale naturale in torbiere ma in seguito, a causa dell’enorme raccolta di torba operata dall’uomo, il territorio tornò a tramutarsi in centinaia di piccoli laghi. Ciò nondimeno la raccolta di torba non si arrestò e innanzi agli occhi stupiti degli increduli cercatori occasionali di combustibile, si presentarono non solo manufatti in selce ma anche in legno, legno che la palude e la torba umida avevano preservato per migliaia di anni. L’isola di Zelanda in particolare fu il luogo dove avvennero i più importanti rinvenimenti: in una zona chiamata Holmegaard Moose (Moose sta per “palude”), situata nella parte sud occidentale dell’isola, gli operai rinvennero molti manufatti in selce. Nel 1943 assieme a questi manufatti emersero anche reperti in legno. Ne venne subito informato il Museo nazionale, cosicché cominciarono scavi più accurati. Tra i molti attrezzi e suppellettili in legno, gli scavi portarono alla luce anche due archi: uno completo e un altro rotto a metà; vennero rinvenuti anche frammenti di frecce ed alcune di queste poterono essere ricostruite come frecce intere. L’arco in legno è il più antico arco al mondo mai rinvenuto intero ed è oggi esposto al Museo nazionale di Copenhagen, risale ad un periodo databile tra il 7.000 e il 7.400 a.C.
Caratteristiche e design
L’arco appare costruito con estrema cura, ben proporzionato, con flettenti bilanciati e una superficie liscia e ben levigata. Il suo disegno, i flettenti larghi, l’impugnatura stretta e la bellezza del suo insieme suggeriscono che questo tipo di arma doveva far parte della cultura di quella tribù da lungo tempo. Può essere classificato come arco piatto, la sua lunghezza è di 154 cm con flettenti larghi e non molto spessi, oltre ad un marcato restringimento ed ispessimento all’impugnatura. I puntali sono muniti di una nocca scanalata ad una delle estremità, mentre l’altra termina con un piolo cilindrico, il che sta ad indicare che la corda fosse fissa sul flettente inferiore e smontabile ad occhiello su quello superiore. L’arma è costruita in legno di olmo e si tratta di un ottimo pezzo di legno: cresciuto all’ombra, privo di nodi e con un andamento delle fibre drittissimo. Gli anelli di crescita del legno sono molto stretti ed indicano che la pianta è cresciuta in condizioni climatiche difficili. L’olmo non era abbondante nel primo Mesolitico, ciò significa che l’albero per quest’arco venne selezionato con estrema cura da un uomo che conosceva assai bene la sua arte: si trattava sicuramente di un costruttore d’archi professionista. Ovviamente è impossibile dire alcunché sulla funzionalità dell’arma, sulla sua efficienza e le sue doti caratteristiche se non ricostruendone una replica o, più precisamente, un’approssimazione.
Chi ne ha tentato la ricostruzione
Diversi costruttori e ricercatori americani hanno tentato l’impresa, ma colui che più di altri, a mio avviso, si è prodigato nello studio e ricostruzione di questo importantissimo manufatto, è stato il danese Flemming Alrune. Certo Alrune “giocava in casa”, per dirla in termini sportivi, perché egli poté esaminare e misurare minuziosamente l’originale esposto a Copenhagen, ma ebbe anche il merito di pubblicare le intere misurazioni delle sezioni e delle quote dell’arco di Holmegaard: grazie a lui, ora un tentativo potevo intraprenderlo anch’io. All’interno della moderna e consolidata scienza archeologica va sviluppandosi velocemente un campo di ricerche noto come archeologia sperimentale, che consiste nella replica controllata di antiche tecnologie al fine di fornire ipotesi che possano confermare (o smentire) i dati archeologici finora acquisiti. In tal modo molte antiche attrezzature, edifici e manufatti, sono stati ricreati al fine di apprendere la maggior quantità possibile di elementi sul loro processo di costruzione, di impiego e di usura. Tali esperimenti hanno mostrato che molte delle “certezze” tradizionalmente acquisite circa il modo in cui alcuni compiti venivano espletati, certi oggetti venivano costruiti e il modo in cui varie cose funzionavano, erano in realtà prive di fondamento. Quindi, sulle tracce del mio “collega” danese e con un bagaglio di circa un quarto di secolo di esperienza nella costruzione di archi in legno sulle spalle, la mia avventura mesolitica poteva avere inizio.
Durante l’occupazione tedesca in Danimarca vennero alla luce manufatti in selce e reperti in legno che le torbiere avevano preservato per millenni. Tra questi, il più antico esemplare di arco al mondo ritrovato perfettamente integro.
Un errore valutativo dei primi studiosi
L’errore valutativo primario in cui incorsero gli studiosi che per primi esaminarono questo antichissimo arco fu relativo al verso in cui questo avrebbe dovuto piegarsi una volta in uso. Siccome il reperto presenta una superficie convessa e una piatta, si pensò che, come avveniva per gli archi inglesi di concetto medievale, anche il nostro venisse piegato verso la superficie convessa, lasciando quella piatta verso l’esterno, ossia come “dorso” dell’arco. Questa ipotesi non teneva conto delle dimensioni del legno dal quale l’arma venne ricavata: un tronchetto di olmo giovane del diametro di circa sette centimetri. La superficie convessa (quella panciuta per intenderci meglio) costituiva infatti la parte più esterna del tronchetto, lavorata quanto bastava a togliere la corteccia e al massimo il primo strato ligneo o strato di cambio. Il nostro caso è quindi ben diverso da quello dell’arco Tudor ricavato da grossi tronchi di tasso, dove la parte rotonda era costituita da durame, ossia la parte interna del legno; nell’arco di Holmegaard questa parte a cui succede di essere convessa per il solo fatto di essere la superficie esterna di un alberello che non andava violata, è formata invece da alburno, ossia dalla parte esterna e tenera del legno, mentre il durame resta interamente sulla superficie piatta, resa tale a causa della lavorazione di un tronco di piccole dimensioni. Il principio fisico del trave elastico che vuole il materiale duttile e soffice sottoposto a trazione ed il materiale duro e compatto sottoposto a compressione, è stato quindi rispettato appieno anche se con un capovolgimento della sezione a noi più familiare; inoltre la prima ipotesi avrebbe visto l’arco flettere nel senso inverso rispetto alla posizione dello spessore lasciato all’impugnatura, che non poteva trovarsi davanti all’arma come nei moderni longbows “reverse”, infatti in tal caso le fibre intagliate a scalino scosceso proprio sul davanti e al centro dell’arco ne avrebbero causato l’immediata rottura al primo tiro.
L’originalità dei flettenti
Questi grossolani errori interpretativi non accadrebbero se tra le équipe di studiosi che esaminano tali importantissimi reperti vi fossero dei costruttori di archi tradizionali. Ma veniamo alla caratteristica più intrigante e misteriosa di questo arco: i suoi flettenti, in un punto di poco sopra alle rispettive metà, subiscono un brusco restringimento mentre nel senso dello spessore presentano nello stesso punto un lieve incremento che torna poi a decrescere progressivamente verso il puntale. Anche qui gli esperti di turno suggerirono che si trattasse di strozzature sulle quali erano avvolti e fissati dei tendini di rinforzo. Anche stavolta l’ipotesi non resse non solo alla luce delle plausibili tecniche costruttive ma anche a quella del comune buonsenso: per quale ragione infatti uno strato di rinforzo in tendine dovrebbe coprire solamente una porzione centrale dell’arco e non l’intero dorso? Inoltre su queste strozzature non è visibile alcuna traccia di schiacciamento dell’alburno che normalmente presenta tali segni in forma di piccoli solchi quando viene sottoposto a legature poi rimosse. Di primo acchito verrebbe da formulare un’ipotesi assai semplicistica: una riduzione in larghezza delle parti terminali dei flettenti rende questi ultimi più aerodinamici e ne riduce la massa, aumentando perciò la velocità in chiusura e l’efficienza dell’arco. Secondo Flemming Alrune questa potrebbe essere solamente una parte di verità; l’altra parte andrebbe ricercata in un’osservazione talmente acuta e sofisticata che, se corretta, farebbe del nostro arcaio preistorico un tipo assai più in gamba di qualsiasi costruttore medieval-rinascimentale.
L’opinione di Flemming Alrune
Secondo il danese, che parla dal punto di vista di un fine artigiano, alla base di ogni “tradizione” si riscontra quasi sempre un fondamento pratico. Nel corso del tempo lo stato di necessità iniziale si modifica fino a diventare una vera e propria consuetudine e possiamo dedurre che doveva esistere una ben pressante motivazione per modificare un’arma indispensabile quanto l’arco. Osservando questi flettenti da un punto di vista della fisica, la ragione pratica può venire alla luce: se essi si rastremassero in modo uniforme dall’impugnatura al puntale ed allo stesso modo la loro larghezza andasse decrescendo in modo geometrico con due linee convergenti, sorgerebbe un problema proprio in quel punto quasi mediano. In tale punto infatti lo spessore del flettente in relazione alla sua larghezza sarebbe insufficiente a garantirne la tenuta e si tradurrebbe in un punto debole. L’arco in tal punto fletterebbe troppo a causa di una inevitabile mancanza di materiale. Il primo tratto di flettente, che va dall’impugnatura al centro di esso, resterebbe troppo rigido, lasciando compiere tutto il lavoro all’altra metà del flettente che va dal centro al puntale, con una possibilità di rottura proprio in quel punto situato a circa due pollici sopra al centro.
Una strozzatura mediana davvero geniale
Se la larghezza andasse decrescendo meno sensibilmente verso i puntali ed allo stesso tempo lo spessore diminuisse in modo lineare e regolare, l’arco diverrebbe lentissimo, privo di scatto e di efficienza per un’inevitabile carenza di durame sulla parte interna, quella soggetta a compressione.
La parte dominante diverrebbe il dorso, con il suo giovane alburno, dando luogo ad una tendenza alla deformazione permanente e ad una gittata risibile.
Se la larghezza andasse decrescendo a linee convergenti ma lo spessore diminuisse meno di quanto detto in precedenza, al fine di avere una accettabile quantità di durame presente, ne conseguirebbe che la parte terminale del flettente resterebbe quasi inerte, rigida ed inoperante: la metà superiore del flettente resterebbe piatta.
La genialità in questi corti flettenti risiede proprio in quella strozzatura mediana. In questa sezione la larghezza si riduce repentinamente ma allo stesso tempo lo spessore aumenta impercettibilmente prima di tornare a rastremarsi verso le punte.
Questo disegno e questa tecnica costruttiva consentono a ogni singolo punto, sezione e segmento del flettente di essere pienamente attivo ed operante, il che significa la massima restituzione di energia ipotizzabile, caratteristica non riscontrabile in nessun arco in legno semplice convenzionale fino a tutto il periodo vittoriano e fino ai primi del novecento americano.
Noi uomini evoluti e progrediti, noi “scienziati” del ventunesimo secolo dobbiamo tornare a scuola da questi cacciatori mesolitici se vogliamo capire il funzionamento di una cosa tanto semplice e “puerile” come l’arco.
Nell’affrontare la mia replica dell’arco di Holmegaard non disponevo di olmo sufficientemente stagionato, ma avevo un ramo di tasso delle dimensioni canoniche.
Per quanto riguarda la larghezza e la lunghezza, mi attenni fedelmente all’originale.
La stessa cosa non fu possibile per tutti gli spessori, in quanto il tasso presenta irregolarità più vistose dell’olmo; presenta nodi sul dorso che vanno lasciati in rilievo per compensare il punto debole e l’andamento delle fibre subisce delle sinuosità che vanno assecondate e capite in relazione al concetto di flessione su linea virtuale che poteva avere l’arco autentico.
È un arco estremamente difficile da riprodurre, specialmente nel processo di bilanciamento dei flettenti (tillering), è necessaria un’attenzione estrema per realizzare un pezzo veramente riuscito.
Non crediate tuttavia che per “riuscito” si intenda una fotocopia dell’arco esposto a Copenhagen: la lunghezza e la larghezza possono essere riprodotte fedelmente, ma sono il tipo e la qualità del legno a determinare quali spessori la replica dovrà avere, non altro.
A causa delle variabili naturali presenti in ogni singolo pezzo di legno, sarebbe stupido riprodurre un reperto archeologico di arco come se fosse la sua esatta fusione in cera persa fino all’ultimo dettaglio ed aspettarsi poi che funzioni.
Per una sperimentazione intelligente
Ciò che risulta assai più importante e vitale è capire appieno il principio e la lezione che ci insegna questo maestro sorto dalle paludi…
la sperimentazione intelligente consiste in questi casi nel far rivivere il concetto nella sua piena funzionalità come avrebbe fatto “quel” costruttore, non fare una copia carbone di un suo pezzo unico e che lui stesso non approverebbe.
Il risultato ottenuto sfruttando questi principi è stato un arco da caccia del carico di circa 50 libbre, con una velocità di chiusura e un’efficienza sensibilmente superiori a quelle finora ottenute con design medievali e moderni.
Come ogni inizio esso è perfettibile, ma indica che il percorso seguito è quello giusto.