Grazie alla sensibilità scientifica delle autorità competenti e la Sovrintendenza ai beni archeologici di Trento, e di Verona, un progetto mai prima d’ora tentato a livello nazionale, ha potuto prendere forma crescere, dare i suoi frutti e… gettare nuove sementi. Un progetto nel quale, per la prima volta in assoluto, gli esperti cattedratici ufficiali in discipline come la paleontologia, l’archeologia e l’antropologia, hanno potuto confrontarsi e discutere con gli esperti di discipline arcieristiche, ricostruttori e sperimentatori di modelli di archi e frecce preistorici
Ricordo ancora come un sogno quando, io e l’amico Oscar Gonzalez, andammo fino a Trento con un viaggio tra il comico e l’avventuroso.
La, l’archeologo Bellintani, ci attendeva “a porte aperte”, per farci esaminare nientemeno che il più importante reperto di arco preistorico mai rinvenuto in Italia, L’arco delle palafitte di Fiavè-Carrera, età del bronzo medio. Era per noi la prima volta che un tale onore e privilegio ci veniva concesso, un misto di emozione e di timore reverenziale verso tal veneranda vestigia ci rendeva confusi ed eccitati come scolaretti. Ma il nostro lavoro di analisi e di osservazione dei reperti doveva avere inizio al più presto. Oltre alle attrezzature “da campo” che ci eravamo portati appresso, fummo fortunati che il Bellintani e il personale in servizio presso l’ateneo di Trento furono molto disponibili nel mettere a nostra disposizione le attrezzature di laboratorio quali il microscopio a scansione, la lente luminosa, gli stativi fotografici di precisione, i calchi e le riproduzioni delle attrezzature in bronzo quali scuri e pugnali.
Ad una prima analisi, l’arco di Fiavè apparve come un attrezzo di modeste dimensioni, la sua lunghezza, da restaurato era di circa m.1,35, ma siccome una delle due estremità risulta carbonizzata, la lunghezza originaria stimata fu attorno al metro e quarantacinque. “Ma esto es lo arco de un ninjo!” Fù il commento quasi sconsolato di Oscar.
“Vacci piano Hombre,” cercai di rincuorarlo, “stiamo parlando di un’epoca molto remota, l’età del bronzo, e pare accertato che la statura media di un individuo adulto di allora, era più bassa di quella odierna”!
L’arco andava ora analizzato e misurato in ogni sua sezione e dimensione;
Il bravo Paolo Bellintani, che per l’occasione si è adattato al ruolo di gentilissimo padrone di casa e assistente, ci ha assicurato che l’essenza dell’arco è quasi certamente stata identificata in Corniolo (cornus mas), una essenza arbustiva assai diffusa nel nord Italia e in Europa così come, con lievi varianti, nel continente nord americano.
Sorse però subito una differenza interpretativa sul senso in cui l’arco avrebbe in origine dovuto lavorare: se flettersi verso la parte semitonda o verso quella più appiattita. Non solo, ma non eravamo neppure d’accordo sul metodo di lavorazione, vale a dire: in che modo il nostro antenato avesse ottenuto quella superficie dell’arco tondeggiante e come invece avesse ricavato la faccia opposta quasi piatta? La tesi di Oscar era che l’arcaio preistorico avesse lavorato la parte tonda con tanto sugo di gomito, con pugnali in bronzo e schegge in selce, fino a farle assumere quella caratteristica sezione semitonda, mentre per la parte opposta semipiatta pareva che il pezzo fosse stato appena sbozzato e per così dire “pelato”. Niente da fare, da emiliano testa dura io ero invece convinto dell’esatto contrario! La Parte semitonda appariva troppo liscia e inviolata per essere stata lavorata con violenza da uno dei rudi oggetti in uso in quegli evi lontani, mentre il lato opposto presentava, a mio avviso, delle tracce di lavorazione a lama con successiva levigatura che avevano un’apparenza a dir poco “sospetta”. Mai mettere in scontro diretto la testa di un Gauchos de la Pampa con quella di un semi-romagnolo, discendente in linea indiretta da Stefano Pelloni detto il Passator Cortese! La sentenza era passata ora al microscopio elettronico. E il risultato pendeva più dalla parte del Brigante di Forlimpopoli! Infatti l’immagine ingrandita della sezione dell’arco ai puntali, mostrava chiaramente l’andamento ad anelli concentrici quasi inviolati che, uno sull’altro andavano a formare il lato tondo dell’arma, indicando in tal modo che, su quel lato, l’attrezzo era stato solamente scortecciato e pulito dal nostro arcaio preistorico, mentre la parte opposta e appiattita, era stata sicuramente lavorata e ridotta per mezzo di strumenti bronzei e litici, al fine di rendere bilanciata la curvatura dei flettenti dell’arma.
Ci si trovava quindi di fronte ad un reperto unico in forma e dimensioni, non paragonabile sotto questi aspetti a quelli coevi rinvenuti ad Edington Burtle, a Mehare Heath, nel Somerset, a Zuid e altri siti. Tuttavia, per la sua peculiarità strutturale ed ergonomica nell’utilizzo della materia grezza presente in natura, l’arco di fiavè, sebbene dalle analisi degli anelli risulti ricavato da un ramo di dimensioni ridotte, è più affine come concetto costruttivo agli archi Danesi Rinvenuti ad Holmegaard Moose ed ora conservati al Museo Nazionale di Copenhagen.
Questa mia asserzione ha suscitato, e continuerà a suscitare, scalpori ed alzate di scudi negli ambienti accademici ma questo è dovuto solo ad un fraintendimento morfologico della classificazione dei reperti.
Infatti non si sostiene che l’arco di fiavè sia in qualche modo cugino dei suoi simili rinvenuti in Danimarca, che sono notoriamente più robusti ed imponenti, la cui sezione è più larga e la cui impugnatura è ben marcata e nettamente visibile, a causa di una qualche somiglianza dimensionale o esteriore. Ciò che rende il nostro arco italico affine a quelli nordici è il concetto assolutamente intelligente ed innovativo che prevede il minimo dispendio energetico da parte del costruttore, che lascia la parte anteriore soggetta a tensione il più possibile intatta nella struttura naturale originaria, mentre le necessarie asportazioni avvengono sulla parte interna dell’arma che, essendo soggetta a compressione, tollera meglio le inevitabili asperità e interruzioni delle strutture fibrose che tale lavorazione
comporta.
Una volta acquisiti i dati ricostruttivi necessari, con il patrocinio della Provincia Autonoma di Trento, Ufficio Beni Archeologici, si è potuto tenere nel suggestivo luogo dei rinvenimenti palafitticoli, il seminario incentrato sulle Catene Operative dell’arco preistorico, che ha visto impegnati nello studio, ricerca e ricostruzione pratica di archi, frecce e punte in selce, una nutrita schiera di studenti universitari di paleontologia e materie affini, guidati dall’esperienza del Prof. Pierre Catlin, massimo esperto Belga nello studio dei proiettili da lancio in epoca preistorica (arco e propulsore); Vittorio Brizzi, matematico-astrofisico,ed esperto litotecnico, Celestino Poletti, arciere e arcaio professionista oltre che da Oscar Gonzalez e Stefano Benini, (Society of Archer-Antiquaries).
Sui risultati pratici ricostruttivi vi è da dire che, un primo arco ricostruito per un documentario ad uso interno, oltre all’aspetto didattico non ha saputo fornire altri dati come: l’efficienza, il libraggio, l’energia immagazzinata e quella restituita, la velocità cinetica della freccia ecc..
infatti l’arco, per necessità di “copione” ha dovuto essere iniziato e finito da un pezzo di corniolo ancora verde. Questo ha fatto sì che l’attrezzo si deformasse e restasse curvo nel senso della corda, perdendo forma e rigidità, in ultima analisi non consentendo la lettura attendibile dei dati sperimentali.
Tuttavia, facendo tesoro dei primi errori, altri tentativi di ricostruzione sono attualmente in corso con legnami canonicamente sbozzati e stagionati; Il dato importante di questo seminario, al di la dei pur apprezzabili risultati pratici di promozione dello studio e della conoscenza archeologica e paleontologica a livello universitario, è quello di aver dato il via, per la prima volta ad una fattiva collaborazione tra le istituzioni accademiche ufficiali ed i gruppi di esperti ed appassionati del settore
storico arcieristico, per una volta non in chiave folkloristica ma con tutti i carismi della ricerca scientifica riconosciuta anche nei circuiti accademici internazionali, Se, perdonandomi in anticipo, mi passate la battuta, è il caso di dire che, con Fiavè l’arco si mette in cattedra.
Vi sono molti altri aspetti che questo tipo di ricerca sulla disamina e ricostruzione dei dati archeologici disponibili potrebbe sviluppare in campo arcieristico, basti pensare ai moltissimi reperti catalogati nel 1963 dall’archeologo J.D. Clark, rivisitati con l’occhio dell’arciere da Gad Rausing e il discorso diverrebbe sempre più ricco ed interessante.
Stefano Benini.
Un ringraziamento Particolare: